Resmye Jebel è uscita dal Khiam, dove ha trascorso diversi periodi di detenzione. Il campo di detenzione del Khiam è fino in fondo un tipico carcere israeliano, non solo perché è controllato dagli israeliani, ma anche perché le pratiche di tortura fisica e psicologica dei prigionieri sono assolutamente identiche a quelle a quelle di tutte le carceri israeliane in Palestina. Prima di parlare della vita in carcere voglio parlare della vita quotidiana nei territori libanesi occupati da Israele. L'occupazione ha sconvolto la nostra vita, non abbiamo più potuto usufruire dei nostri servizi sanitari e per qualsiasi nostro spostamento, compresi quelli per andare a lavorare nei campi, la nostra principale fonte di sopravvivenza, abbiamo iniziato a dipendere dai permessi israeliani. Sono iniziate le perquisizioni e le intimidazioni: una delle abitudini preferite degli israeliani è quella di passare di notte a bussare alle porte della gente dicendo di essere della Resistenza. Se rispondi naturalmente vieni arrestato, se non rispondi e il giorno dopo non vai a denunciare che è passato qualcuno della Resistenza vieni arrestato ugualmente. Io sono stata arrestata per la prima volta nell'86. Sono stata portata davanti ad un ufficiale e a due soldati israeliani che hanno iniziato ad interrogarmi. Alla fine mi hanno chiesto di diventare una collaboratrice. Quando ho rifiutato mi hanno minacciato di abbattere la mia casa e di arrestare tutta la mia famiglia. L 'interrogatorio è durato due giorni e poi sono stata rilasciata dal carcere e messa agli arresti domiciliari. Tutti nel villaggio sono stati minacciati di arresto se avessero parlato con me. Nell'89 hanno arrestato mio fratello e picchiato tutta la mia famiglia. Dopo poco hanno arrestato anche mio padre e da quel momento le perquisizioni e i pestaggi sono stati pressoché quotidiani. Mia nipote a causa dello stress legato a queste continue aggressioni soffre di gravi problemi psichiatrici, probabilmente irreversibili. Poco dopo mi hanno arrestata di nuovo e mi hanno portata al Khiam, dove tre donne soldato israeliane mi hanno incappucciata con un sacco nero di plastica dall'odore schifoso e mi hanno legato le mani. Per umiliarmi, visto che sono religiosa, durante la perquisizione mi hanno tolto il velo di fronte agli uomini. Poi sono stata portata all'interrogatorio che è durato oltre 12 ore, finché hanno portato 2 fili elettrici e hanno iniziato con le scosse elettriche sulle mani e sul seno. La tortura con l'elettricità era resa ancora più atroce dalla minaccia di violentarmi di fronte alla mia famiglia. Erano 2 soldati israeliani a interrogarmi e torturarmi. Alla fine sono stata portata in una cella di nemmeno 70 centimetri e il mattino dopo, alle 6, è ricominciato l'interrogatorio con le stesse torture del giorno precedente, ma molto più intense, ad esempio le scosse elettriche erano rese più efficaci e dolorose bagnando la pelle con acqua fredda e calda. Alle scosse elettriche seguivano pestaggi di vario genere e simulazioni di impiccagioni che si interrompevano solo al limite dello strangolamento; ogni tanto facevano delle pause portandomi in bagno e costringendomi a inginocchiarmi e ad infilare la testa nel cesso. E' stato così tutti i giorni, per oltre un mese. La notte, quando pioveva, le guardie entravano nelle celle e ci portavano fuori e ci facevano stare sotto la pioggia, bendate. Quando è finito il periodo dell'interrogatorio, la situazione non è migliorata: non solo non sono migliorate le condizioni fisiche, ma in ogni cella c'era una collaboratrice. Nella mia cella eravamo in 6 e dovevamo dividere 2 litri d'acqua al giorno per bere e per lavarci. In questa situazione le malattie erano inevitabili: molte malattie della pelle ma anche problemi intestinali, reumatici, ginecologici ecc. Le cure mediche ci sono state totalmente negate.La situazione era ancora più dura per le anziane: molte di loro soffrivano di cuore e non erano in grado di sopportare ne la tortura, ne l'interrogatorio, ma venivano ugualmente torturate, e quando svenivano venivano picchiate finché non si svegliavano, veniva dato loro del valium e l'interrogatorio e la tortura ricominciavano. A causa dei pestaggi e delle scosse elettriche la nostra pelle cadeva a brandelli, e questo rendeva tutto ancora più doloroso. Il cibo era marcio e pieno di insetti, ma noi mangiavamo l0 stesso perché volevamo sopravvivere.Mi chiedo dove sono tutte queste associazioni per i diritti umani di cui sento parlare. Dopo che sono uscita dal Khiam, io e le mie compagne ci siamo rivolte alla Croce Rossa e ad altre associazioni, ma senza alcun risultato. Tra l'altro la maggior parte dei prigionieri del Khiam non ha nemmeno svolto attività nella resistenza: si tratta di civili che vengono presi nel tentativo di farne dei collaboratori, di familiari di combattenti, di gente qualsiasi. D: - Ci sono organizzazioni di base libanesi che si occupano della situazione dei prigionieri del Khiam?R. J. - Fino al '92 solamente Hezbollah si è occupato della situazione del Khiam, dopo è nata l’Associazione per i detenuti del campo di concentramento del Khiam, che cerca di sensibilizzare l'opinione pubblica internazionale, ma anche nazionale, visto che pare che molti libanesi non sappiano o fingano di non sapere che questo carcere si trova a pochi chilometri dalle loro case. D: - All'interno del carcere sono state tentate forme di organizzazione tra i prigionieri?R. I. - No, le condizioni non lo permettono, ma l'associazione di cui parlavo è stata creata da ex prigionieri ed è il punto di riferimento dei prigionieri che escono dal Khiam. D: - Qual'è la divisione del lavoro all'interno del carcere tra l'esercito israeliano e l' E. S. L.? R. J. - Gli israeliani danno gli ordini e le guardie di Lahad li eseguono. Gli israeliani controllano i prigionieri e prescrivono se aumentare o mantenere stazionaria la tortura. Non ci sono dubbi su chi comanda! Il segretario generale di Hezbollah, Nashrallah, ha sfidato Lahad a iniziare la trattativa per la fine del conflitto se veramente ha un minimo di potere. Ma naturalmente sono gli israeliani che decidono cosa fare.(senza censura - novembre 1997) L’ingresso del campo di concentramento israelianodi Khiam (Libano) E-Mail: aine@aine.itCopyright ® 2005 Aine Cavallini - Firenze - ItalyTutti i diritti riservati.
domenica, settembre 10, 2006
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*Abbattere muri costruire ponti*
*Trasformiamo la tregua in pace*
Siamo stati a Beirut in missione di pace per vedere la guerra dal basso,
con gli occhi di chi la subisce, come abbiamo sempre fatto in passato,
in Iraq, in Turchia, a Belgrado, ancora in Iraq.
Abbiamo visto la distruzione delle vite e del futuro cui giorno dopo
giorno la popolazione del Libano era sottoposta, abbiamo ascoltato più e
più volte la richiesta di cessate il fuoco immediato, abbiamo anche
ascoltato le aspettative che l'Italia facesse la sua parte da protagonista.
Il cessate il fuoco non è la pace, ma è la condizione affinché alla pace
si possa almeno aspirare, perché sino a che cadono bombe e partono
missili non vi è speranza e, giorno dopo giorno, si muore.
Il cessate il fuoco è arrivato, tardivo, reticente, ambiguo e fragile,
ma è arrivato. Subito i Libanesi sono ritornati nei propri luoghi ed
hanno cominciato a ricostruire. Ora è decisivo che le armi continuino a
tacere. Molte altre cose sono necessarie per la pace, ma la prima è che
tacciano le armi.
Per questo abbiamo gioito, con i Libanesi, alla notizia che un accordo
era stato raggiunto nel Consiglio di Sicurezza e che le parti in
conflitto lo avevano accettato.
Per questo non siamo contrari alla partecipazione italiana alla forza di
interposizione dell'Onu: perché è una delle condizioni perché il cessate
il fuoco continui.
Se questo non avvenisse sarebbe una tragedia ulteriore innanzi tutto per
i Libanesi, ma anche per tutti gli altri popoli del Medio Oriente, che
si potrebbe incendiare ulteriormente e anche per tutti noi, perché si
avvicinerebbe la profezia del cosiddetto “scontro di civiltà”.
Ma vorremmo anche dire che questa non è la nostra politica, che questa
non è l'Onu di cui ci sarebbe bisogno, che per costruire la pace ci
vuole altro.
Questa è la politica resa possibile oggi delle diplomazie degli Stati
che giocano sulla pelle dei popoli i propri interessi strategici, non è
la politica della pace.
La pace si fa anche a piccoli passi, è una costruzione politica che si
persegue giorno per giorno, anche con i compromessi, cammina sulle
strade del possibile e chi vuole la pace, e non la "vittoria", lo sa e
lo persegue. Ma la pace necessita innanzitutto di giustizia e di diritti.
L’Onu di cui ci sarebbe bisogno è una Onu affrancata dai veti, in grado
di richiedere il cessate il fuoco il primo e non il trentaduesimo giorno
di guerra, di chiedere il rispetto di tutte le proprie risoluzioni, e
non solo di registrare gli accordi possibili tra i potenti.
La politica che vorremmo non è fatta da armi schierate tra altre armi,
ma di verità, giustizia, diritti.
Riteniamo che affinché la missione abbia successo riteniamo che occorra:
- una rigida neutralità. In questo senso desta preoccupazione la
esistenza di un trattato,stipulato dal Governo italiano precedente, di
cooperazione militare con una delle parti in campo. Questo trattato deve
essere sospeso almeno sino a che la missione è in corso.
- un forte rispetto della sovranità del Libano, che ospita la missione,
e che, solo, può definire le modalità di soluzione dei problemi interni
al paese, compreso il processo di disarmo di tutte le milizie.
- una chiara distinzione tra i compiti del contingente militare
nell'ambito di UNIFIL e le iniziative di sostegno al Governo, agli enti
locali e alla società civile libanese nella assistenza umanitaria e
nella ricostruzione sociale e materiale del paese. Azioni che devono
essere rigidamente affidate ad una missione civile separata da quella
militare.
- che si prema su Israele affinché rispetti la risoluzione 1701,
togliendo il blocco navale e aereo e consegni le mappe dei campi minati
nel Sud Libano che impediscono la ricostruzione e un ritorno alla vita
normale di una grande parte di popolazione libanese.
- che non ci sia una “doppia agenda” e che la partecipazione italiana
non sia finalizzata a conseguire vantaggi economici per le imprese
italiane nel “business” della ricostruzione.
Per la pace in medio oriente.
- La pace in Medio Oriente necessita che si chiuda il capitolo tragico e
vergognoso del colonialismo europeo, con il riconoscimento delle
responsabilità storiche dei paesi colonialisti verso i popoli
colonizzati e la rinuncia ad ogni velleità di controllo, egemonia,
influenza. Per questo sollecitiamo ancora il Governo italiano a
promuovere azioni di scuse e di risarcimento verso i popoli della Libia
e del Corno d'Africa, vittime del colonialismo italiano di inizio secolo.
- La pace in Medio Oriente necessita di riconoscimento dell’altro e
delle sue culture. Per questo riproponiamo la creazione in Italia di un
Istituto di alta cultura sul modello dell’Istituto del Mondo Arabo di
Parigi.
- La pace in Medio Oriente necessita di disponibilità al dialogo con
tutti e in particolare con le rappresentanze liberamente scelte dai
popoli e a comprenderne e a confrontarsi con le loro ragioni, anche con
coloro di cui non si condividono le scelte. Per questo riteniamo
positivi i segnali politici lanciati in Libano e in Palestina dal
Governo italiano e lo sollecitiamo a operare in questo senso anche in
Iraq. Anche nell'Iraq sprofondato nella guerra civile non c'è
alternativa al dialogo e alla conciliazione nazionale e l’Italia, dopo
il ritiro delle proprie truppe, potrebbe svolgere un ruolo positivo.
- La pace in Medio Oriente necessita che si ripristini la legalità
internazionale, con la fine di tutte le occupazioni militari, e il
riconoscimento dei diritti alla vita, alla libertà e al futuro di tutti
gli uomini e le donne che vi abitano a cominciare dagli uomini e le
donne palestinesi. Abbiamo a cuore il diritto alla sicurezza degli
uomini e delle donne che vivono in Israele al pari di ogni altro e ogni
altra, ma la sicurezza è la conseguenza della pace e della giustizia, e
non la sua premessa. Per questo sollecitiamo il Governo italiano a
sostenere la denuncia di Kofi Annan e del Governo libanese sull’uso di
armi illegali, anche favorendo una commissione di inchiesta dell'Onu
sulle violazioni occorse durante la guerra, a sollecitare il rilascio di
tutti i prigionieri illegalmente detenuti e a condannare ogni azione
rivolta ai civili.
- La pace in Medio Oriente necessita di una prospettiva di disarmo, a
cominciare dalle armi di distruzione di massa presenti in Medio Oriente
e non solo. Solo un processo complessivo di disarmo può impedire
ulteriori proliferazioni. Per questo sosteniamo la proposta di una
conferenza per un Medio Oriente libero da armi di distruzione di massa e
la richiesta di smantellamento dal territorio italiano delle armi nucleari.
- La pace in Medio Oriente necessita della convinzione da parte di tutti
che non sarà con le armi e con la guerra che si otterranno né la pace,
né i diritti, né la sicurezza. Per questo sosteniamo la proposta di una
conferenza internazionale per la pace in Medio Oriente con la
partecipazione di tutti i soggetti interessati.
- La pace in Medio Oriente, infine, necessita che la società civile
mediorientale che lotta, insieme, per la pace e la sovranità, per i
diritti, per la giustizia e per la democrazia possa crescere e
svilupparsi ed alimentare, nel dialogo con tutte le parti della società,
una prospettiva di sviluppo umano basato sui diritti di tutti e di tutte
che si imponga sugli autoritarismi e sui fondamentalismi. Per questo ci
siamo orientati a lavorare con le Organizzazioni Nongovernative locali
in tutti i paesi in cui siamo presenti sostenendo il loro operato e non
sostituendoci ad esse e invitiamo tutti a fare lo stesso.
La pace è lontana. Lontana dagli uomini e le donne che continuano a
morire in Iraq a decine senza che nemmeno più ce ne accorgiamo. Lontana
dagli uomini e le donne segregati a Gaza e nella West Bank . Lontana
dagli uomini e le donne che vivono in Israele, in Libano, in Iran, in
Europa, in Italia. Lontana dalle navi della disperazione che ogni giorno
approdano sulle nostre coste.
C'è molta strada ancora da fare. Speriamo che l'Italia, tutta, voglia
percorrerla. Un ponte per... con le poche forze di cui dispone ci sarà.
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