giovedì, agosto 17, 2006

Ieri è morto Alfredo Stroessner. Aveva 94 anni, viveva in Brasile ma era paraguaiano. Chi era? Un dittatore latino-americano. Anzi, potremmo dire che è stato il capostipite dei dittatori che nella seconda metà del 900 hanno trasformato l’America Latina in una specie di campo di concentramento insanguinato. Stroessner andò al potere nel maggio del 1954, rovesciando il governo di Federico Chavez (la coincidenza dei nomi che tornano...) con una sollevazione militare, e restò in sella per più di 35 anni. Il suo regime - tra gli anni sessanta e i settanta - fu il punto di riferimento per tutta l’attività golpista internazionale che si sviluppò attorno alla famosa operazione-Condor, guidata dagli Stati Uniti. L’operazione-Condor consisteva in trame segrete, assassinii, sequestri, e poi colpi di Stato, eseguiti con l’appoggio della Cia (cioè dei servizi segreti degli Stati Uniti) che in breve tempo fecero scomparire dall’America Latina ogni traccia di democrazia e seminarono migliaia di morti e di desaparecidos. Il ruolo degli Stati Uniti in quelle operazione di annientamento della legalità fu diretto. L’uomo che più si impegnò nell’organizzare i colpi di stato, e poi la persecuzione dei dissidenti (torture, detenzione in condizioni disumane, assassinii eseguiti in varie parti del pianeta, compresa Washington, compresa Roma) fu il segretario di Stato Usa Henry Kissinger (presidenza Nixon). La Cia ebbe un ruolo fondamentale e allora era diretta da un signore che si chiamava George Bush (1976-1978) il quale costruì su quella sua attività gran parte della fortuna politica personale e poi della propria famiglia. L’operazione Condor in pochi anni travolse l’Uruguay, il Brasile, la Bolivia, il Cile e l’Argentina. Gli Stati Uniti misero in piedi l’operazione-Condor - con l’aiuto di Stroessner e di altri - attuando una vecchia dottrina politica, elaborata ai primi dell’ottocento da uno dei primi presidenti americani, James Monroe - un liberale - il quale sosteneva che l’America Latina doveva essere considerata “il cortile di casa degli Stati Uniti“ (frase notissima), e che quindi non doveva godere di autonomia né politica né economica. Si è sempre parlato pochissimo delle dittature in America latina e dell’operazione Condor. Eppure quelle dittature sono state una faccia del liberismo americano. Non erano una degenerazione: erano lo sviluppo conseguente di alcune teorie politiche e di una idea di sviluppo globalizzato. Il titolo di questo editoriale dice: Castro e Stroessner. Che c’entra Castro? Siccome in questi giorni si stanno svolgendo molte polemiche attorno alla figura di Castro, la notizia della morte di Stroessner ci ha fatto ritornare alla mente quegli anni e quei fatti. E ci ha fatto pensare che è difficile giudicare il regime cubano e l’attività di Fidel Castro senza tener conto del luogo del mondo dove si è realizzata la rivoluzione cubana e dell’atteggiamento politico, spionistico e militare degli Stati Uniti. Cuba, dal 1959 fino alla metà degli anni ’90, ha vissuto in un continente completamente militarizzato, asservito agli Usa, e ha dovuto fare i conti con un embargo e con un blocco economico che hanno rischiato di strangolarla. L’altro giorno, su questo giornale, Pietro Ingrao ha criticato Bertinotti e Giordano per il saluto amichevole inviato a Fidel Castro in occasione della sua malattia e del suo ottantesimo compleanno. Dice Ingrao, che è il più prestigioso esponente della sinistra italiana: "A Cuba c’è una dittatura". Abbiamo ricevuto moltissime lettere - e alcune le pubblichiamo - di critica verso la dichiarazione di Ingrao. Eppure Ingrao ha ragione: a Cuba non c’è la libertà. E questo è l’elemento che rappresenta perfettamente lo scarto fortissimo che divide l’idea che tutti noi abbiamo avuto e abbiamo della rivoluzione cubana - delle speranze che ha suscitato, dei sogni, delle passioni che ha mosso - e la situazione concreta, di oggi, della società che si è realizzata in quell’isola. E’ o no la libertà un principio irrinunciabile per la sinistra moderna che noi vogliamo costruire? Credo di sì, che lo sia. E quindi escludo che il castrismo possa essere un modello per noi. Credo che vada criticato, anche con severità, e che continuamente vada indicata ai dirigenti cubani questa urgenza: che sia ripristinata la libertà, che sia consentito il dissenso, che si apra la politica e la gestione del potere ad un sistema pluralista di idee. Il rischio è quello di trasformare questa denuncia in una “liquidazione”. Che cancelli tutte le sfumature. Che ignori il contesto e non dia il peso che merita - nella storia - allo scontro tra la piccolissima e fragile Cuba e l’arrogante potenza degli Stati Uniti. Non si può aggirare questo nodo. E quando i giornali ci raccontano che Chavez è andato a trovare Castro, e che Frei Betto, e Lula, e Morales e tantissimi altri protagonisti della primavera sudamericana, sono stati lì, a solidarizzare e a portare affetto, non possiamo non chiederci il perché. E senza niente toglierle alle nostre critiche, e alla richiesta di libertà, prendere atto della funzione storica che Cuba ha svolto e che non è solo dittatura. 17 agosto 2006

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